L'acqua è un bene pubblico: e allora perchè ci vietano di usarla?

E' notizia di questi giorni che il Comune di Siena, in previsione della possibile crisi idrica, ha emesso un'ordinanza che pone limiti al consumo di acqua potabile nei mesi estivi.
Da libertari, profondamente convinti che un bene pubblico non sia tale in quanto offerto da enti pubblici, ma perchè nessuno possa sottrarlo al godimento dei cittadini, seguiamo da sempre con occhio scettico la montagna di retorica che accompagna il dibattito sull'acqua.

Più che un dibattito si tratta spesso di un soliloquio di quanti individuano un problema concreto -la scarsità dell'acqua in certi periodi e in certi luoghi, appunto- e individuano la soluzione in provvedimenti che ingigantiscono questa difficoltà fino a renderla palese, col divieto di consumo imposto con la forza.
Ciò che emerge da queste discussioni è infatti la necessità di socializzare un bene scarso come l'acqua al fine di sottrarla alla legge della domanda e dell'offerta: togliere l'acqua al mercato per consegnarla nelle mani di un monopolista che si occupi di calmierarne il prezzo, se non addirittura di assicurarne la gratuità.
Si tratta di una visione ingenua, ideologica e pericolosa, frutto di due gravi errori di metodo:
  • non tiene conto dell'aspetto economico, sostenendo una presunta diversità del bene in oggetto rispetto ad altri;
  • ritiene che la scarsità di acqua sia un problema assoluto, mentre si tratta per lo più di uno squilibrio nell'allocazione della risorsa.
Il motivo per cui si verificano le crisi idriche è, infatti, lo stesso che accompagna ogni crisi energetica: la richiesta di un bene supera la quantità disponibile di quel bene, ed equilibrare i due valori nel breve termine diviene apparentemente impossibile. Nel caso dell'acqua bisogna aggiungere anche l'inadeguatezza delle reti idriche, spesso fatiscenti, le cui perdite sono pari ai consumi di migliaia di individui.
Di fronte a questa situazione, due sono le risposte possibili: continuare a tenere artificialmente basso il prezzo dell'acqua e limitarne l'utilizzo entro certi limiti, o rimuovere le barriere al mercato, facendo sì che il prezzo dell'acqua oscilli secondo il rapporto domanda/offerta.
Le differenze tra queste due soluzioni sono enormi.
Con la prima non si fa che alimentare il circolo vizioso alla base della crisi: se i prezzi non sono liberi di variare, non possono svolgere il proprio ruolo di indicatore della scarsità di un bene.
La conseguenza, drammaticamente evidente nel caso delle risorse idriche, è che il consumo di quel bene non rispetta i parametri di razionalità imposti dal calcolo economico, e si assiste a continui sprechi che alimentando la scarsità ingigantiscono la crisi. Per cercare di porre un freno a questa scia di errori, si pensa quindi di limitare la libertà individuale in maniera del tutto arbitraria, vietando il consumo di acqua per certi tipi di uso e consentendolo per altri.
Il razionamento e i divieti sono quindi un tentativo, sbagliato e inutile, di risolvere un problema che le stesse istituzioni pubbliche creano controllando il mercato.
Vi sono migliaia di esempi al mondo di simili situazioni, risolte nel momento in cui i prezzi, lasciati liberi di oscillare, sono saliti, rendendo assai gravoso lo spreco.
Per rendere efficienti i consumi (specialmente in ambito agricolo, laddove le tecnologie di irrigazione usate sono spesso obsolete e “sprecone”) e per spronare a tamponare le enormi falle delle reti idriche, l'unica soluzione passa per privatizzazioni e liberalizzazioni autentiche.
Risparmiare acqua si può e si deve, ma lo si fa solo se è conveniente: il remoto pericolo di una multa difficilmente limiterà gli eccessi dell'uso comune, che vanno molto al di là del lavaggio di una macchina in giardino o del riempimento di una piscina per cercare un po' di refrigerio.

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