Università di Siena? Rinascere nel mercato.

Il clamoroso buco nei conti dell'Università di Siena continua a fare notizia. Sul tema interviene per noi Carlo Lottieri, ricercatore in Filosofia del Diritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'Ateneo senese e Direttore del Dipartimento “Teoria politica” dell’Istituto Bruno Leoni. Buona lettura.

I problemi finanziari che hanno investito l’università senese hanno radici che affondano nell’ultimo quindicennio, e possono certo essere letti in vari modi. Sia sul piano delle responsabilità penali che su quello della dialettica interna all’istituzione, è normale che vi sia una grande attenzione a ricercare quali possono essere stati i “colpevoli”. Non si tratta solo di veder scorrere il sangue, ma soprattutto di capire quali decisioni abbiano prodotto il disastro del presente, che certamente verrà pagato a caro prezzo dall’intero capoluogo toscano e da quanti (senesi e no) gravitano sull’università come studenti e come docenti.

Ben al di là del caso specifico, però, vale la pena di chiedersi se il crack del bilancio senese non sia figlio soprattutto di un ordine istituzionale – quello delle università italiane – che va interamente rivisto, ponendo al centro la libertà di scelta degli studenti e la responsabilizzazione di ogni amministratore.

Cominciamo dal primo dato, il più elementare: il meccanismo di selezione delle gerarchie. Nelle università italiane, il rettore è eletto attraverso un complesso meccanismo che obbliga i professori candidati a tale carica a ricercare il sostegno dei propri colleghi e del resto del mondo universitario locale. Al termine di un’abile campagna elettorale si può quindi passare dallo studio e dall’insegnamento della Filologia romanza o della Fisica dei solidi alla gestione di un’impresa con migliaia di dipendenti. Ed è chiaro che i risultati possono essere solo modesti.

Negli Stati Uniti le cose funzionano diversamente, sia negli atenei pubblici come in quelli privati. Gestire un’università è una professione specifica, e non già il frutto di improvvisazione. Quanti nella vita ambiscono a svolgere questo ruolo, iniziano con il guidare piccole università oppure con l’avere ruolo direttivi “minori” all’interno di università prestigiose, e dopo aver dato mostra di qualità organizzative, gestionali e amministrative finiscono per farsi carico di Yale o di Harvard.

C’è poi un’altra questione, ancor più cruciale.

Le università italiane – anche quelle dette “private” (Cattolica, Luiss, Bocconi ecc.) – sono di fatto tutte università di Stato, in quanto sono finanziate dai contribuenti sulla base di complicati criteri che, ad esempio, permettono la nascita e la sopravvivenza di troppe facoltà senza iscritti, di scarso o nullo interesse.

Una seria alternativa a tutto ciò sarebbe la privatizzazione del sistema accademico italiano e la creazione di un’offerta differenziata, competitiva, stimolata ad attirare gli studenti. Oggi l’università pubblica prende a tutti – compresi i redditi più bassi – e restituisce (sotto forma di rette assai modeste) solo a quella quota composta di italiani che mandano i figli all’università: e si tratta ovviamente di famiglie più rappresentate nei ceti medi e alti che in quelli bassi o bassissimi.

Privatizzare le università e costringere ognuno a finanziarsi da sé l’istruzione vorrebbe dire dare un potere del tutto nuovo agli studenti, che oggi non sono quasi mai in grado di far valere le proprie ragioni di fronte all’istituzione e, in particolare, dinanzi ai docenti. L’obiezione che in tal modo i più poveri non potrebbero studiare può essere facilmente superata, perché a tale scopo sarebbe sempre possibile per lo Stato elargire borse di studio per quanti sono bravi e meritevoli.

Questo mi pare allora essere l’insegnamento cruciale che viene dalle presenti difficoltà dell’università di Siena: bisogna che le istituzioni dell’alta formazione siano costrette a selezione bene docenti e ricercatori, siano spinte a farli lavorare al meglio, siano indotte ad assumere buoni modelli gestionali e a prendersi cura del loro futuro. E per far questo c’è bisogno che le università siano sempre più “imprese di mercato” e sempre meno “apparati di Stato”.

Uno tra i professori più coraggiosi, intelligenti e controcorrente che Siena abbia avuto negli ultimi decenni, Franco Romani, esattamente vent’anni fa scrisse un articolo che dava ragionevoli indicazioni su come l’università italiana avrebbe dovuto cambiare. In quel pezzo, “Un po’ di anarchia nel cuore dell’Accademia”, l’economista suggeriva di attribuire potere allo studente.

Si tratterebbe, in fondo, di tornare alle origini: dato che nel dodicesimo secolo e in quelli successivi le università erano associazioni di studiosi, che si facevano pagare per le loro lezioni, o associazioni di studenti, che “assumevano” i professori e pretendevano da loro corsi di qualità. In un caso o nell’altro, le università erano realtà di mercato, in cui lo scambio delle idee s’intrecciava di continuo con lo scambio del denaro.

È a quell’antico modello che l’università di Siena, le cui radici sono fatte risalire al 1240, dovrebbe tornare ad ispirarsi.

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